La prima cosa che ti viene in mente mentre ascolti “The Dirty Affair“, l’EP di otto tracce dei Kezia è che questi cinque ragazzi hanno dato vita ad un genere tutto loro che io chiamerei “swing metal” e che loro invece chiamano “prop”.
Nelle intenzioni iniziali della band bresciana infatti c’è la volontà di rinverdire lo stra-abusato progressive in nome di una freschezza musicale che passa, appunto, anche dall’improbabile swing. Eppure l’intero contesto funziona.
I Kezia sono riusciti a confezionare un disco che a differenza di un qualsiasi altro EP ha il merito di non essere frettoloso, anzi. Ogni traccia è ben studiata: è come se per ognuna di esse fossero state dedicate intere sessioni monotematiche, al fine di raggiungere la perfetta imperfezione delle stesse.
Mi spiego: appare abbastanza chiaro che la band, nella fase di scrittura, abbia cercato di girare ogni singolo brano come un calzino, aggiungendo e mai togliendo, puntando, ad esempio, sulle parti orchestrali, sporcandole contemporaneamente con schitarrate e voce graffiante, per poi tornare ad arpeggi ed assoli, come se non fosse successo niente.
Ecco, questi sono i Kezia: i “Bohemian Rhapsody” dell’età moderna.
A loro ulteriore vantaggio va detto di aver avuto anche il tempo di creare motivi orecchiabili: nel baillame generale delle sperimentazioni e commistioni musicali, Pierlorenzo Molinari e soci sono riusciti a confezionare motivi melodici, puntando intelligentemente anche sul contributo delle parti vocali in doppio.
Un esempio su tutti è dato dalla titletrack: refrain interessante e frenetico che regala al pezzo subito una sua identità; qui tra l’altro, nel finale, ci si concede il lusso di un tocco di “epicità” data, come è giusto che sia, ad una long track.
Meritevole di menzione per i motivi qui sopra espressi è anche “Barabba Son’s Song”, canzone alla quale viene data questa spiegazione: “tutti si ricordano di Gesù, ma nessuno di Barabba…”.
D’altronde, è chiaro che i Kezia, con il loro modo di fare musica, ci abbiano fatto capire di vivere in un mondo tutto loro ed è giusto che anche il significato delle canzoni sia un po’… come dire… sui generis! Altrimenti non ci troveremo dinanzi a pezzi come “Ebola” (che ci racconta di un uomo affamato e della sua tartaruga) o come “Quendo”, pezzo validissimo, che propone l’eventualità di trovare una porta per l’inferno all’interno di un pub…
Tirando le somme, questi strani Kezia ci piacciono perchè il loro è un sound sorprendente, nel senso che dopo il primo minuto non sai cosa aspettarti!
Ultima parola spesa per l’artwork: molto apprezzato da un gusto prettamente femminile. Ce lo vedo benissimo stampato sulle magliette.