Nei giorni scorsi i metallers made in Potenza Ecnephias hanno pubblicato un comunicato ufficiale nel quale annullavano tutti i concerti fino a maggio per questioni legate a “convinzioni in tema di dignità personale e artistica“.
In pratica la band avvisava che in futuro sarebbe stata disposta a suonare solo se fosse stato garantito “un compenso rispettoso del nome e della storia” del gruppo, comprese le spese accessorie.
Scrivono gli Ecnephias:
Come già detto in passato noi NON PAGHIAMO per SLOTS, non accettiamo offerte in tal senso anzi ci sputiamo sopra come SEMPRE abbiamo fatto, carte alla mano firmate e controfirmate. Se capiterà di suonare significherà che qualche SERIO ORGANIZZATORE ci stima e ci paga. Come spesso è avvenuto.
Altrimenti continueremo a fare soltanto ALBUMS e a condividere con chi ci ama le emozioni, le parole e la fantasia che è parte di noi”.
Ed ora, apriamo il dibattito.
Tutto quindi sembra svilupparsi attorno al discorso del “pay to play“: cioè, io ti pago e tu mi fai suonare, o meglio, tu mi chiedi i soldi per farmi suonare, io te li do e finalmente posso suonare.
Nel caso degli Ecnephias la posizione che viene presa è netta, ovvero noi non paghiamo nessuno, anzi: la band ha una sua dignità e storia e devono essere i promoter o chi per loro a sganciare soldi se vogliono fregiarsi della presenza del gruppo. Ma non solo: il compenso deve essere commisurato al peso della band in questione.
Probabilmente a questo punto qualcuno di voi potrebbe pensare: “Ma chi cazzo siete ad avanzare tutte queste pretese?”, il che può anche starci (e non ci riferiamo a Mancan e soci, sia chiaro), ma questo è anche il punto in cui la riflessione si fa più incisiva.
Che lo si voglia o no la musica è un sistema. Anche la musica è un business. Io stessa, in questo preciso istante in cui scrivo, sono nel sistema musica perchè utilizzo il mio portale d’informazione per comunicare con voi.
Ora… che un gruppo musicale paghi per suonare fa parte del sistema, con tutte le obiezioni ad esso collegate, perchè altrimenti non avrebbe senso far pagare un biglietto al fan. Io potrei andare tranquillamente dal tizio del locale e dire: “Ascolta, a me piace la musica e voglio assistere al concerto senza dover pagare”, eppure non lo posso fare perchè so che se c’è una band che suona, c’è anche un locale, una serie di operai e tecnici che sono lì per lavorare e la mia sarebbe una mancanza di rispetto. E allora, se in questo vortice c’è sempre qualcuno che paga, il pay to play diventa legittimo sì o no?
Per avere una visione d’insieme ed una chiave di lettura diversa dell’argomento, abbiamo chiesto a Mike (Michele Saggin) degli Stigmhate (che è anche un nostro valido collaboratore) di dirci la sua:
Inizierei col fare una distinzione ben precisa. Innanzitutto io non mi sento di demonizzare il pay to play, così come non mi sento di giustificarlo. Parliamoci chiaro: il “pagare per suonare” c’è sempre stato, sia che ci si riferisca alle band che ai locali. Volendo fare un esempio spicciolo: Sanremo funziona così o non lo sapevate?
Quello che mi interessa evidenziare è il fatto del perché non accettare il compromesso del pay to play.
– Può essere un discorso economico: la band non ha i soldi per potersi pagare uno slot.
– Può essere un discorso tecnico: la band non ha le palle per suonare in un determinato contesto.
– Può essere anche un discorso di convinzione assoluta: io non pago punto e basta.Io sono dell’avviso che scartare tutto a priori o prendere tutto a priori sia in entrambi i casi negativo.
Il prendere tutto a priori, però, può anche starci se parliamo di una band agli esordi che vuole farsi conoscere. Cioè, se io ho un budget, perchè non utilizzare quei soldi per essere inserito in un festival o per suonare in un locale da 1000 persone? D’altronde, sto facendo un investimento, nè più nè meno di quello che si fa su Facebook quando si sponsorizzano le pagine delle band o su Youtube in cui si pagano i “like”.Scartare tutto a priori invece mi puzza, perchè per quanto mi riguarda o non sai suonare o non sei allenato o non hai una lira. Diffido dal considerarla una pura questione di principio.
Non ti nascondo che anche a me è capitato. Anche io come band mi sono trovato nella condizione di dire “no” ad un pay to play, ma è chiaro che se mi vengono chiesti 2000 euro per suonare ad un festival per 20 minuti e magari a 800 km da casa preferisco andarmeli a spendere al Wacken come spettatore!
Il problema è che la colpa non è delle band o dei locali o dei promoter… Il problema è alla base: le etichette.
Non voglio generalizzare, ma pensate solo a questa cosa: oggi se paghi l’etichetta, fai il disco. E questo cosa vuol dire? Semplicemente che non c’è selezione! E poi ci lamentiamo che il metal e la musica in generale è stata snaturata. Prima invece questo discorso non c’era perchè erano le etichette stesse a fare selezione e veniva scelta solo gente competente. Ed ecco perchè la musica di 20, 30 anni fa viene considerata migliore rispetto a quella di oggi”.
Come sempre, ci interessa conoscere il vostro sapere. Attendiamo con ansia.
– Sil –
Articoli di dibattito firmati Metal In Italy:
1) Band in crisi. Sempre colpa del batterista?
2) Quanto “costa” essere un musicista…
3) Perché ai concerti ci vanno in 20 persone?