E’ da un po’ di tempo che gira su Facebook questa foto:
Magari le cifre possono differire a seconda dell’esperienza dei singoli e della portata della band, ma la sostanza non cambia.
L’underground, quello che deve farsi il culo, quello che deve dividersi tra la sua vera passione, la musica, e quello che per il momento gli dà da campare (sempre che ci sia) probabilmente queste cifre le conosce molto bene.
Perchè il concetto è proprio questo: sì, è vero, si sogna da rockstar, si gioca a fare i fighi davanti a folle urlanti, ma ciò che spinge i musicisti oggi è innanzitutto la viscerale voglia di far sentire la propria musica, di condividere quelle sensazioni che hanno portato a quello spartito, a quel giro di chitarra, a quel testo dedicato a chissà chi.
Noi di Metal In Italy abbiamo chiesto ad un musicista (che guarda caso è attualmente nel Gus G – We Are The Fire European Tour 2015 ) di darci un proprio parere sulla questione, aspettando naturalmente le vostre considerazioni.
Questo quanto dichiarato da Giorgio JT Terenziani, Coordinatore Nazionale del reparto di basso del Modern Music Institute e bassista degli Arthemis:
“E’ una bella provocazione, ma come tutte le provocazioni è un’iperbole.
Se prendiamo i dati nello specifico può anche essere vero, ma è la comunicazione che passa ad essere fuorviante.
Un musicista professionista, in teoria, ha una formazione che vale quanto una laurea specialistica e quella formazione dovrebbe essere il vero “costo” che porta in giro. In Italia non abbiamo la percezione di quanto costi l’istruzione, ma nei paesi anglosassoni è molto semplice dare un prezzo alle proprie qualifiche e, proprio da questo prezzo ne deriva anche l’aspettativa di guadagno, tant’è che alcuni istituti di formazione superiore segnalano il possibile “primo stipendio” tra i dati che caratterizzano il percorso di studi. Qui viene fuori, secondo me, un nodo impossibile da sciogliere. La musica non è solo professione, ma arte, comunicazione, cultura e non c’è un metro di giudizio puro per queste cose così negli stessi luoghi si incrociano: talenti artistici, professionisti, “dopolavoristi”, tecnici, studenti…
In questa categorizzazione assolutamente soggettiva non c’è nessuna critica… è solo un modo di cercare di fotografare la situazione (senza dilungarsi troppo). Allo stesso modo il pubblico stesso a volte chiede solo “entertainment”, a volte ricerca qualcosa di diverso e di stimolante, a volte vuole ballare, a volte vuole stare seduto ad ascoltare, a volte è spettatore involontario.
Noi musicisti siamo come ci percepiamo e, se ci si percepisce come degli emarginati dalla società saremo visti così…
E’ una profezia che si auto avvera tant’è che a parità di curriculum, reddito e contatti ci sono musicisti stimatissimi e altri che invece ottengono poco in termini di rispetto e riconoscimento, perché? Io credo che il tutto parta dalla percezione. Se io mi rispetto e cerco di portare avanti onestamente il mio modo di essere, riesco a far convivere il lato artistico con quello professionale sapendo che relativamente alla professionalità posso garantire un risultato a cui far corrispondere un prezzo per il lato artistico, devo essere pronto a “non piacere”.
La frase scritta ha senso e potrebbe essere una motivazione nel momento in cui un musicista si forma, ma se diventa l’emblema della professione allora sì che è un problema, ma in primis per chi si sente in quella situazione. Rimane un ottimo spunto di riflessione anche se viene usato e abusato da chi vuole fare un po’ di facile vittimismo. Di mio preferisco la filosofia del “si può fare” e mettermi a testa bassa per ottenere i risultati che mi sono preposto”.
E voi cosa ne pensate?
Sil