«Il mio rapporto con la musica iniziò sul serio il 18 settembre del 1970. Il giorno in cui venni a sapere della morte di Jimi Hendrix, un’icona, un personaggio inconfondibile. Io non sapevo nulla di lui ma in Svezia era abbastanza famoso e il tg nazionale trasmise un servizio il giorno della sua morte. Lo vidi per puro caso. Mostrarono un breve video tratto da Monterey Pop Festival in cui dava fuoco alla sua Stratocaster.
Avevo sette anni: potete immaginare quanto mi abbia colpito. Mi mandò fuori di testa. Vedere Hendrix che bruciava la chitarra sul palco mi fece desiderare di diventare un chitarrista. Lo giuro davanti a Dio, fu quella la causa scatenante. Quel notiziario accese un fuoco anche dentro di me, una fiamma che oggi non si è ancora spenta. Dopo aver visto Hendrix cambiarono molte cose. Un anno dopo, per il mio ottavo compleanno, mi regalarono Fireball dei Deep Purple. Era il mio primo LP e ne andavo fiero. Quel primo vinile ce l’ho ancora nel mio studio, custodito quasi come una reliquia.
Mi dedicai subito a imparare i brani, seduto nella mia stanza, ascoltavo a ripetizione il disco. Ogni elemento di quel disco mi affascinava. Nelle note, sulla busta interna, c’era una piccola fotografia in bianco e nero di Ritchie Blackmore, dall’aspetto tutto misterioso, e io ero solito fissarla domandandomi com’era, cosa stesse facendo. Se fosse stato in tour o in studio. Che corde usa. Tutto quel che potevo fare all’epoca era guardare una fotografia e lavorare di fantasia. Sotto molti aspetti era proprio quella la magia. L’aura di mistero e il fatto di non conoscere tutti i dettagli di una persona, la rendevano ancor più impressionante».