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Final Fright: “Artificial Perfection” – Recensione

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Debutto sulla lunga distanza per i thrashers Final Fright, con “Artificial Perfection” ci presentano un album in puro Thrash Old style, che si articola su nove brani che durano mediamente oltre quattro minuti.

I cinque ragazzi di Cavalese, comune della provincia di Trento, hanno profuso tutto il loro impegno per dar vita ad un prodotto veemente e sanguigno, ma l’attitudine non è tutto nella musica ed è necessario avere qualcosa di concreto da dire. Ciò che piace è sicuramente il piglio con il quale i Final Fright buttano giù nove brani pestati dall’inizio alla fine, ma mancano di personalità e denotano qualche carenza anche a livello esecutivo. Ci sono infatti alcuni passaggi, come ad esempio in “Serial Victim”, in cui i musicisti sembrano perdere il filo del discorso e non vanno precisamente a tempo, facendo storcere il naso all’ascoltatore.

Presi singolarmente i Nostri svolgono bene il proprio lavoro, ma nell’insieme non restituiscono un’immagine solida e coesa. A ciò bisogna aggiungere che le tracce sono troppo simili tra loro e si fatica a tenerle a mente, anche a causa di un cantato alquanto monocorde ed ancorato a soluzioni ripetitive. Buone le parti soliste di chitarra, che non sono invadenti e vengono inserite al punto giusto, mentre la ritmica delle stesse fa ricorso a passaggi poco incisivi.

Appare chiaro che la band necessita di un rodaggio ancora più lungo ed approfondito, al fine di rendere la proposta più coesa e personale, anche se ad onor del vero il genere proposto non richiede poi una massiccia dose di innovazione. È plausibile ipotizzare che un minutaggio minore dei singoli brani possa giovare alla resa globale, riducendo così quella sensazione del già sentito.

Non è da escludere che i Final Fright riescano ed essere più efficaci in sede live, nel caso di “Artificial Perfection” la prova in studio è da rimandare al prossimo appuntamento.