Si chiama Alessandra, ma sui social il suo “alter ego” è Violetta… E non ha nulla a che fare con il personaggio amato dalle bambine. Violetta come una fragranza, leggera e non invadente, ma allo stesso tempo potente perchè in grado di essere utilizzate, seppur a dosi, in qualsiasi contesto.
E lei è così.
E’ la cantante dei Signal To Noise, band giovane alla ricerca del sistema perfetto per poter pubblicare l’album di debutto, nonostante ci siano pezzi inediti e numerosi palchi già calcati.
Violetta, pardon, Alessandra conduce la sua vita nella duplice veste di cantante ed autrice, non solo dei suoi testi ma anche di articoli e poesie che scrive per La Valdichiana. Osserva il mondo musicale con occhio critico, attingendo da chi considera “maestro” ed ha una visione piuttosto disincantata di come funziona il settore. A partire dal pubblico: non ci si può lamentare se l’underground non viene supportato quando sono gli stessi artisti a prediligere i concerti dei big piuttosto che quelli dei “colleghi”.
L’intervista:
Ciao Alessandra, grazie del tuo tempo. Inizierei con lo spiegare il tuo alter ego…
Ciao a te! È sempre un piacere spiegare la nascita del mio alter ego, perché è nato da una persona che pensava di insultarmi, e invece ha creato un “tormentone” divertente che mi accompagna da qualche anno. In buona sostanza, qualche anno fa, scrivevo per una redazione di un magazine online di motori, e come ben sapete, è un mondo prettamente maschile. Una delle poche altre donne presenti, mi apostrofò su Facebook, senza rivolgersi direttamente a me, ma al mio caporedattore, dicendo che io scrivevo degli articoli “al profumo di violetta”. Non so bene che cosa intendesse, forse non ero abbastanza “macho” da inserire negli articoli quei detti aberranti da amante sfegatato (e scriteriato) dei motori tipo “con il sole o col bagnato, tieni sempre spalancato”, o esprimermi in maniera dura e rude, in maniera più stereotipata e meno personale. Fatto sta che tutti i miei amici iniziarono a chiamarmi Violetta, dopo quell’intervento, e io ci risi moltissimo su, non mi offesi neanche, a essere sincera. Allora, decisi che Violetta avrebbe espresso il mio lato estroverso, creativo. Alessandra è una finta estroversa, è più riservata e schiva, lascia tutto in mano a Violetta, quando si tratta di esprimersi pubblicamente!
Mi incuriosisce molto la tua figura. Potremo definirti una “cantantessa” in stile Carmen Consoli del synth rock italiano per questa tua duttilità nel destreggiarti tra l’aspetto prettamente autorale e quello canoro. Quale aspetto credi che ti si addica di più attualmente?
Ti ringrazio molto per il tuo accostarmi a Carmen Consoli, è una donna che stimo molto, perché dotata di una forte personalità e di una spiccata indipendenza rispetto al resto del mondo musicale italiano, per quanto riguarda le donne. E mi fa molto piacere, perché vuol dire che sono riuscita a “smarcarmi” da alcune aspettative che mi hanno accompagnato per anni, e non mi hanno reso la vita facile. E vuol dire che sto riuscendo nel mio tentativo di dare alla musica che faccio una forte componente autorale.
Devo dirti, ho passato buona parte della mia vita artistica, che come sai, non è stata solo caratterizzata dal canto, ma anche dall’approcciarmi ad altre forme d’espressione artistiche, a cercare di essere qualcun altro. Non ho paura a dirlo! Quando ho iniziato a cantare, volevo essere Amy Lee, Elisa, Ella Fitzgerald, poi tornavo a voler essere Sharon Den Adel, poi volevo cantare come Anastacia, o come Alanis Morissette. Ma è normale e anormale allo stesso tempo! Normale, perché ogni volta che una ragazza prova a pubblicare qualcosa di suo, partono subito i paragoni con questa o quella cantante e sull’aspettativa che debba arrivare ad avere “la voce di”, di fatto sminuendo la voce che ciascuna donna naturalmente ha. Per esempio, mi sono sentita dire per anni che avrei dovuto cantare più in alto possibile, ma Madre Natura mi ha fatto diversamente e non sono dotata di quel tipo di voce che tutti si aspetterebbero da me. Non entro neanche nella componente fortemente sessista del panorama musicale nel rock e nel metal, altrimenti andremmo veramente fuori tema!
Tuttavia, quest’aspettativa è fortemente anormale, poiché ci forza a cantare qualcosa che non è proprio, quindi di fatto a escludere una componente fondamentale che è quella autorale. Io non riesco più a cantare qualcosa che non è mio, o meglio ancora, non riesco più a cantare qualcosa che qualcuno si aspetta che io canti “come quella cantante” o solo come vuole tale persona. Io vorrei essere un’autrice (seppur reputi di essere molto nella media e niente di eccezionale), e non un’interprete. Di interpreti, e di ottime interpreti, è pieno il mondo. Non sai quanti anni mi ci siano voluti per arrivare a questa conclusione – e non sai quanti blocchi psicologici mi abbia causato, e su questo devo veramente ringraziare la mia insegnante di canto, Barbara Schera Vanoli. Adesso, però, è arrivato il momento di dire qualcosa di mio, dopo tanti anni! Vorrei che si vedesse la mia personalità e il mio lato di autrice, e non quella di qualche modello che dovrei seguire per qualche assurdo motivo. Meglio sbagliare convinta con la mia testa, che essere mediocre nell’imitare qualcuno.
Musica e comunicazione: un continuo raccontare e raccontarsi. Quanto è presente questa componente nell’Alessandra musicista?
Raccontare e raccontarsi sono aspetti molto importanti, sono decisamente il motivo per cui ho iniziato a scrivere materiale inedito! La musica è uno splendido mezzo per raccontarsi, e questo mezzo va riempito di contenuti, di parole importanti. Parole che sentiamo nostre, che devono essere uno spaccato di quello che ci è successo, di qualcosa di positivo o negativo che abbiamo provato – e quello è il raccontarsi. E nei brani inediti, ho voluto mettere esperienze personali, vissute in prima persona, perché è importante il raccontarsi – è catartico, terapeutico. Per ora, seppur in misura minore, è presente il raccontare, qualcosa che magari non è successo a te personalmente, ma ti ha toccato in qualche modo, che lo vuoi riportare ad altre persone. Anche questo è molto importante. Essere narratore in prima persona, o essere narratore un po’ “onnisciente”, vedendo con un occhio esterno un fatto a cui stiamo assistendo o che ci viene riportato. Raccontare e raccontarsi sono proprio l’essenza del comunicare, ovvero del “condividere qualcosa con qualcuno”. E la musica è un bene meraviglioso che condividiamo in tanti, perché c’è un messaggio comune in fondo, che ci accomuna, che ci colpisce, no? Per fare musica, bisogna avere tanta voglia di mettere in comune qualcosa. Per me non esiste musica senza comunicazione, intesa nel senso più puro di condivisione.
Nel 2013 hai dato vita ai Signal To Noise, una band che di fatto ancora sta cercando il suo spazio per il debutto. Cosa è stato fatto in questi tre anni?
I Signal To Noise sono la mia prima vera band di brani inediti e la prima band di musica inedita strutturata e che ho co-fondato con Stefano (il tastierista) tre anni fa. Devo dire che, per essere una band di musica propria, abbiamo fatto parecchio! Soprattutto, siamo riusciti a suonare parecchio live, e a comporre parecchi pezzi inediti. E quello che mi dà soddisfazione, è che siamo riusciti a essere piuttosto costanti, sia nello suonare dal vivo, sia nel provare insieme, e nel comporre. La costanza è la chiave di tutto, anche se adesso ci sono stati dei cambiamenti di una certa importanza, che riveleremo al più presto, e che ci hanno fatto fare una forzata pausa estiva, con molto dispiacere da parte di tutti noi. La strada che ci porta al nostro debut album è abbastanza tortuosa, ma come qualcuno diceva “it’s a long way to the top, if you wanna rock ’n’ roll!”. Scherzi a parte, vogliamo fare un primo disco che ci renda in primis contenti in tutto e per tutto, dalla composizione, alla registrazione, alla pubblicazione, alla cura dell’immagine, per poi arrivare alla distribuzione e promozione. Ogni passaggio è fondamentale, suonerà estremamente imprenditoriale, ma tutti questi aspetti non possono e non devono essere trascurati. Per questo ci stiamo prendendo tutto il tempo necessario per dare alla luce il nostro primo disco.
Vivere di musica oggi non è possibile. Dove abbiamo sbagliato in questi anni?
Una domanda veramente difficile. Non sono nessuno per rispondere – ma un’idea me la sono fatta. Forse non saranno sufficienti le mie parole – e sono sicura che mi perderò qualche passaggio per strada, ma ci provo ad avanzare la mia opinione, che opinione è e rimane, pertanto, opinabile.
Riprendo un’espressione che avevo utilizzato poco sopra. L’aspettativa sociale. Beh, se ci si pensa, quante volte abbiamo sentito dire da altri che “ok, suoni, ma qual è il tuo vero lavoro?”? Come se suonare fosse qualcosa di rilegato al dilettantismo e al tempo libero, una volta usciti dal lavoro, o come un’attività del weekend, un po’ superficiale, e a volte un po’ becera. Quante volte, suonando in prima persona, o ascoltando qualcun altro suonare, abbiamo sentito dire “sì, ma allora mi suoni una canzone di Ligabue o di Vasco (o un qualsiasi altro artista nazionalpopolare)?”, smontando il tuo ego e il tuo orgoglio artistico in tempo zero? C’è un problema sociale e anche un problema culturale. Il metal e il rock, più in Italia che in altri Paesi, sono stati relegati a un’immagine negativa e sbandata, da reietti e da maledetti. Mi è capitato anche di sentirmi dire che suono musica per satanisti – e i Signal To Noise son ben lontani da quel tipo di musica (e anche qui, sulla musica cosiddetta satanista, ce ne sarebbero di luoghi comuni da smontare)!
Poi, il pubblico si è impigrito, esce a bere qualcosa e vuole sentire qualcosa che conosce bene e a cui è abituato. Da qui lo spopolare delle cover e tribute band – e per carità, ci ho cantato pure io e non rinnego niente, perché non è colpa delle band in sé, perché ce ne sono alcune di veramente brave, è colpa dell’abuso ne che viene fatto. Però non è neanche possibile che alle feste della birra, ovunque mi giri, qualsiasi festa io scelga, mi trovo sempre e comunque una tribute band degli AC/DC, o di Vasco, o di Ligabue, o dei Guns ’n’ Roses, degli 883, o degli Iron Maiden o dei Metallica!
E qua arriva anche l’errore fondamentale che i metallari italiani, in particolare, hanno fatto, secondo me. Quello di ghettizzarsi continuamente, di deprecare band italiane che sono riuscite a uscire dal “ghetto” (una band su tutte: Lacuna Coil, ma di esempi ce ne sono quanti ne vuoi), di compiacersi di essere una nicchia e di voler rimanere gelosamente “per pochi” e assolutamente non commerciali. Ma, nel contempo, ci si lamenta che le band metal non hanno la visibilità e la popolarità mainstream di altri artisti italiani magari più pop. Credo che questa mentalità debba veramente cambiare, perché il problema principale è quando non hai sostegno dall’interno del tuo pubblico di riferimento, che parla di supporto, che però ai tuoi concerti non c’è, che li vedi ai concerti dei “soliti big” (per carità, condivisibile, io non ascolto solo musica underground, ma mi piace rimanere “sul pezzo”; però alla sedicesima volta che vado a vedere i Testament e gli Overkill, magari mi viene voglia di cambiare gruppo al concerto successivo…), e poi li vedi a lamentarsi che le band metal di oggi fanno schifo, senza neanche averle sentite o sostenute per davvero. E dulcis in fundo, di fronte a una band italiana che ce la fa, o perlomeno, sta più a galla di altre, parte il muro di fischi e insulti. Capisci che non è facile fare musica così – ma non è neanche un modo di ragionare sano, ti fa passare la voglia di fare qualcosa da condividere con un gruppo di persone.
Non ultimo, c’è l’arma a doppio taglio della tecnologia. L’avvento di internet, della musica digitale, ci hanno fatto credere il singolo artista avrebbe avuto un pubblico molto più vasto. Ma è diventato facile fare musica, si può comporre facilmente un proprio “home studio”, chiunque può fare un brano musicale fatto in casa e pubblicarlo su internet senza bisogno di avere un’etichetta… Quindi, si sono moltiplicati i musicisti, oltre ai potenziali ascoltatori! E non c’è spazio per tutti nella fetta di mercato, che è rimasta sempre quella (o peggio, è andata in crisi) purtroppo. Mi vengono in mente band come gli olandesi Autumn (che amo moltissimo), che potevano spiccare il volo, ma si sono “ridotti” a essere una band locale, o agli Stream of Passion, che sono veramente bravi (più di altre band del genere), ma si sciolgono a fine anno dopo un album stupendo come “A War Of Our Own”, sospetto perché non c’è spazio per loro nel mercato del female fronted metal olandese e soprattutto mondiale, occupato già da band ingombranti e storiche come Within Temptation o Epica, o Nightwish. Non fraintendetemi: grazie a internet anche io riesco a pubblicare i miei brani, grazie alla tecnologia, ho scoperto tanti artisti distanti da me e ho scoperto la World Music, melodie e generi musicali che mai avrei scoperto… Ma c’è un mercato veramente saturo, e c’è questa concezione che ciò che viene pubblicato su internet non abbia diritti d’autore o non debba essere pagato, in quanto bene immateriale – ed è per questo che il mercato discografico è crollato a picco, perché tanto basta scaricare illegalmente e non pagare! Spero che questo discorso abbia senso…
I sacrifici vengono sempre ripagati?
L’ottimista che c’è in me ti dice assolutamente sì, perché non c’è niente di più appagante che vedere qualcosa di proprio spiccare il volo, in tutti i suoi pregi e difetti… La realista che è in me dice nì, per i motivi che riguardano il pubblico e la sua mentalità, che ti ho descritto sopra, che ci rendono tutto molto più difficile!
Ci sono molte band che dopo un paio di pubblicazioni o live spariscono dalla scena. Perchè secondo te?
Siamo sempre lì, giriamo sempre nella falsa illusione che Internet e il digitale ti portino fama istantanea e un pubblico sterminato in pochi click. Quindi basta un brano per sentirsi delle rockstar. Basta far vedere che sai suonare tre accordi e pubblicarli su Facebook, per ottenere un mare di “mi piace”. La realtà è molto più dura, avere una band comporta avere molta tenacia, molta costanza, ma ci deve essere costanza da parte di tutta la band, e tutta la band deve remare nella stessa direzione. Avere una band è molto difficile, proprio perché bisogna mantenere un’armonia interna il più a lungo possibile e bisogna riuscire a remare tutti insieme verso l’obiettivo prestabilito. In più c’è la gestione della promozione della band: sempre internet, o peggio, una mentalità legata al dover divenire rockstar vecchio stile, hanno convinto i musicisti che la “popolarità” sarebbe arrivata da loro, magicamente, perché qualcuno li avrebbe notati e li avrebbe riempiti di soldi e di concerti con una telefonata o un’email. No, oggi per promuovere la tua band, per ottenere anche solo un concerto nella tua zona, devi farti un mazzo tanto al punto che, appunto, dopo un po’, ti passa la voglia, perché a volte è difficile raggiungere anche solo telefonicamente il gestore del locale (non parlo neanche della comunicazione scritta). E arrivi alla prima, o alla seconda pubblicazione stremato, se gestisci tutto da solo (perché le fregature sono davvero dietro l’angolo), e dopo un po’, tiri i remi in barca. È dolorosamente normale, questo vedere band sparire dopo un po’ – e le capisco bene.
Tutti noi abbiamo dei “miti” o comunque personaggi dai quali cerchiamo di trarre ispirazione. So che tra i tuoi c’è anche Tori Amos. Cosa ti piace di lei?
Di Tori Amos? TUTTO! No, non è vero. In realtà ci sono dischi che non mi piacciono per nulla, ma era in crisi di mezza età, e faccio finta che non esistano e che non li abbia mai fatti (che cattiva che sono!).
Scherzi a parte… Di Tori posso dirti che mi piace il suo coraggio di aver mandato a quel paese un’etichetta, che le aveva costruito un’immagine e un progetto musicale a tavolino negli anni ’80, per poter fare quello che le piaceva davvero: la cantautrice, accompagnata dal suo pianoforte e dalla sua voce. Posso dirti che mi piacciono i suoi primi quattro album dove ha espresso tutta se stessa, e ha fatto esattamente quello che voleva lei, si è raccontata e si è messa a nudo come pochissime altre persone hanno fatto in musica. Ha cantato la sua gioia, i suoi dolori più grandi, i suoi amori finiti, la sua rabbia, la sua delusione, i suoi aborti, in maniera unica e con un’espressività e una potenza e irruenza irripetibile. Suona il pianoforte in maniera assolutamente personale, tanto che molti dei suoi brani sono difficilmente coverizzabili al pianoforte (o meglio, devi aver studiato e molto bene per suonarli fino in fondo). Scrive dei testi di rara bellezza e vivacità da un punto di vista delle immagini e delle espressioni utilizzate. È un’artista unica nel suo genere. Non ne esisteranno altre simili dopo di lei.
Purtroppo nell’ultimo anno la musica ha perso molti dei suoi protagonisti. Chi tra questi mancherà di più?
Non ho dubbi. David Bowie. Lui non era di questa terra, era un marziano! Non era umano, aveva una creatività assurda, era un visionario vero e proprio, avanti in tutti i sensi, ha fatto musica di quasi tutti i generi e con una lungimiranza senza pari. È impossibile non essere stati influenzati in qualche maniera da lui, musicalmente, esteticamente, o visivamente. Non è possibile non conoscere David Bowie, tutti conoscono una canzone sua, almeno. “Blackstar” è un testamento artistico, un ultimo atto di una potenza, classe e meraviglia che ogni volta che lo riascolto, ho le lacrime agli occhi, perché pensavo che il Duca Bianco fosse immortale, che anche lui avrebbe fatto qualche passo falso, e invece no! Quest’anno è dovuto tornare verso lo spazio, verso una nuova avventura, lasciandoci più soli. Lui teneva l’intero universo musicale insieme, e sembra strano, ma questo universo si sta lentamente disintegrando e disgregando, da quando se n’è andato. Lui mi manca e mi mancherà immensamente.